Ieri, a scuola, un ragazzo di quinta è andato deciso incontro a una professoressa che si affacciava alla porta. “Prof! Le voglio dare un abbraccio!”
Cosa spinge, mi chiedo, un ragazzo di diciannove anni a voler abbracciare una signora cinquantenne, bassina, che insegna scienze? È il contagioso fervore di lei, quando li porta in laboratorio? È la passione che trasmette e che ha portato tante sue classi a vincere premi, concorsi e olimpiadi scolastiche? Guardo la scena con curiosità e una certa invidia. Non sarò mai così amata dai miei studenti. Forse io per prima non li amo abbastanza, e loro lo percepiscono. Forse i passaggi che mi infiammano, nelle opere di letteratura che cerco di spiegare perché si accendano anche loro dello stesso mio entusiasmo, ma col minimo sforzo, leggendo solo una pagina qua e là, è una scintilla debole, che arriva già spenta, e non innesca nessuna passione.
Rifletto sul bello della scuola, quando funziona; sulla fatica e lo sconforto della stessa scuola, quando il problema si individua, ma non si riesce a superarlo.
Poi, realizzo che la professoressa di scienze ha appena detto che ha sbagliato orario. Pensava di essere in quinta ma in realtà doveva andare in fretta in un’altra classe. Possibile che l’abbraccio sia solo per quello? La prof. ha appena ammesso di essere svampita, e il ragazzo si è riconosciuto in quello stordimento e ha deciso di abbracciarla, per comunione di sentimenti?
Dai, non è possibile. O magari anche questo fa parte dell’affetto che i ragazzi provano per lei. La capiscono e la amano, ancora di più nei momenti di confusione.
“Ma che abbraccio!” esclama lei. “C’è il covid, non ti avvicinare!”
Ecco. Drastico. Concreto. Spoetizzante. Tutto l’afflato di affetto ridimensionato in un istante dal Covid19.

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