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silviabogliolo

Sorveglianza


Nella mia scuola, durante gli intervalli, i professori devono “sorvegliare”. Disposti lungo i corridoi, in atrio, e in giardino (d’inverno, la posizione meno ambita) secondo un piano stabilito all’inizio dell’anno, dobbiamo assicurarci che non accada niente di pericoloso. Di solito si finisce per chiacchierare con qualche collega assegnato alla stessa zona, ma qualche giorno fa ero da sola e ho davvero guardato i ragazzi. Li ho guardati per 20 minuti, ininterrottamente. I maschi si muovono prevalentemente a gruppi. C’è un comprensibile assembramento davanti al distributore di caffè. Non mi preoccupo. Non sono sicura che siano in coda, più che altro stanno chiacchierando tra loro. Arriva un amico: grosso, alto, raggiunge il gruppo ma non si ferma. Li urta tutti, abbastanza forte. Tutti barcollano: fanno un passo di lato, verso la macchinetta, poi tornano indietro. Si riassestano in posizione originale. Mi chiedo se devo intervenire, ma lo spintone è stato incassato bene: sembrano tutti divertiti. Passano altri due: anche loro sono amici di qualcuno del gruppo, ma anziché salutarsi, uno solleva la mano e tira una pappina sulla nuca dell’altro. Sto per scattare, ma il ragazzo che ha ricevuto la randellata nel collo se lo massaggia un po’ e non sembra particolarmente risentito. È tutto normale. Il menatore si ferma e si mette a chiacchierare con gli altri amichevolmente. Era un modo come un altro per salutarsi. Però, passano pochi secondi e sono di nuovo in ansia: il gruppo ha assunto una formazione circolare; sembrano tutti particolarmente interessati a uno studente bassino, al centro del cerchio. Si deve essere tagliato i capelli da poco, perché tutti si sentono in dovere di accarezzargli la testa. Cerco di interpretare l’espressione del viso di quello al centro: sarà contento di ricevere tutte queste attenzioni? Dovrei liberarlo? È un ragazzo basso, mi rimane seminascosto allo sguardo, e ora uno parecchio più alto di lui gli ha proprio fatto sparire la testa: ce l’ha sotto l’ascella. Mi avvicino, abbastanza preoccupata, ma il piccolino riemerge. Ha solo il viso arrossato, ride. Non è bullismo, sono solo espressioni un po’ maldestre di fisicità. Almeno spero.

Crescendo, aumentano le distanze interpersonali. I bambini stanno tutti ammassati; gli adolescenti, molto vicini. Per gli adulti, meno di 50 cm è considerato intimo. Nel frattempo, ecco che si avvicinano le ragazze. A conferma delle mie considerazioni sulla distanza, le ragazze procedono a tre o a quattro alla volta. Si tengono a braccetto, in formazioni compatte, infrangibili. Se qualcuno deve percorrere il corridoio nell’altra direzione, le deve aggirare. Le ragazze di solito chiacchierano fitto fitto, oppure ridono con note acute. Sfilano decise, sembra che facciano le vasche, ma forse stanno solo andando in bagno tutte insieme, o magari accompagnano fedeli l’amica che deve comprare un panino. Una mano brandisce il cellulare, l’altra è più versatile: apre la porta, scosta i capelli, scarta la merenda.

Le ragazze sembrano mediamente più tranquille, non si picchiano, ma lo strillo di una di loro mi fa balzare in avanti, certa di un’emergenza: cos’è successo? Perché urla? Ah, no. Niente. Rideva. Mi salva la campanella. Anche per oggi l’intervallo è finito. Deo gratias.



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