Un’alunna nuova. Lo faccio sempre (da oggi dirò “lo facevo” perché non credo lo farò mai più), quando in classe c’è un nuovo studente che deve inserirsi, di chiedergli di parlare un po’ di sé, in inglese. Mi serve sia per capire rapidamente come se la cava con la lingua, sia a rompere il ghiaccio: il nuovo arrivato si ritrova per un paio di minuti al centro dell’attenzione della classe, è un filo imbarazzato ma normalmente i compagni lo ascoltano con curiosità e solidarietà. Qualcuno dice: “Anch’io l’ho dovuto fare l’anno scorso”, altri magari hanno modo di intervenire perché lo conoscono già o fanno qualcosa insieme. Di solito è una conversazione breve e leggera, lo studente nuovo se la cava con una battuta, oppure racconta un qualche dettaglio particolare: gioca a basket, suona in un gruppo, odia l’inglese… cose del genere. Due minuti e la lezione procede.
Questa volta la ragazza (in un buon inglese) dice che viene da una scuola di Milano. Con un sorriso le chiedo perché ha cambiato scuola. Mi aspetto che mi parli di difficoltà con i professori, o di un trasferimento e invece secca mi dice che si trovava male nella sua classe di provenienza e un suo compagno “committed suicide”. Ho capito bene? Si è ucciso?
“Sì”.
Tento un’arrampicata sui vetri. “Oddio, mi dispiace, aveva problemi personali, non sarà legato alla classe?”
“Invece sì, bullismo”.
Sono affranta. Non so più cosa dire. Il sorriso che avevo si è congelato. Gioco l’ultima carta, perché non so più cosa fare. “Era un tuo amico?”
“Sì.”
Vorrei che finisse l’ora. Vorrei abbracciare la ragazza che ho davanti. Vorrei sprofondare nel pavimento. Invece l’ora è appena cominciata. Toccare gli studenti è vietatissimo e posso solo balbettare: “Mio Dio, che tragedia, mi dispiace, che dramma… capisco che tu abbia deciso di cambiare scuola...” Poi, completamente svuotata, faccio un’inutile lezione di inglese.
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